Protesta profili DEA

17/10/2009 11:25

   

Al Ministro dei Beni e delle Attività culturali

al Segretario Generale

e p.c. al Gabinetto del Ministro

ai Dirigenti del Ministero

 

 

Teramo, 17 ottobre 2009

 

 

 North Minto, Canada, inizi del XX secolo. Un gruppo di emigrati abruzzesi al lavoro nei pressi di una boscaglia

 

 

L’ESTINZIONE DI UNA PROFESSIONE MAI VERAMENTE RICONOSCIUTA

 

Demoetnoantropologo. Evidentemente questa definizione vi dà fastidio, o vi risulta incomprensibile. Eppure esistiamo: siamo antropologi, etnologi, o etnoantropologi o demoetnoantropologi, con una storia radicata e importante. É una categoria professionale, come lo psicologo, il notaio, il medico, anche se non abbiamo un ordine professionale. Non credo che otorinolaringoiatra suoni meglio. Ci occupiamo di uno specifico settore del patrimonio culturale, di materia viva, in genere. Eppure qui pare che tutti abbiano diritto ad un riconoscimento tranne noi. Trovo scandaloso, non preoccupante ma scandaloso che il nostro Istituto Centrale sia diretto da una storica dell’arte. Sono discipline affini, in qualche maniera, ma noi apparteniamo alle scienze sociali. Voi andreste a caccia di cinghiale con una canna da pesca? Sarebbe doveroso far dirigere questo istituto da un ANTROPOLOGO, ETNOLOGO, DEMOETNOANTROPOLOGO o come vi piace chiamarlo, purché abbia una formazione professionale in questo settore. Nelle Regioni dovrebbe essere obbligatoria l’assunzione di personale con la qualifica di demoetnoantropologo, nelle Province e nei Parchi altrettanto, per non parlare degli infiniti enti territoriali e dei musei. Sarebbe una crescita culturale per tutto il Paese, un passo fondamentale. E questo obbligo dovrebbe venire da direttive ministeriali e non lasciato alle iniziative o alle non-iniziative delle Regioni o degli enti locali, che spesso non hanno neanche la cognizione di cosa si stia parlando.

Perché nelle Soprintendenze e nel Ministero non è previsto tutto questo? Noi ci occupiamo di beni materiali e immateriali, con un carattere ed una storia particolari, non equiparabili a nient’altro se non alla categoria dei beni demoetnoantropologici, né diluibili in altre, e che hanno necessità di un operare continuo nei territori. Lavoriamo senza risorse, inventandoci mille strade faticosissime e spesso umilianti per riuscire a fare il possibile, senza nessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, o del tutto casuale e “miracoloso”. 

Questo almeno è il caso della regione Abruzzo, dove lavoro da diversi anni. In Abruzzo, nella teoria e nella pratica, non esistono posti di lavoro per demoetnoantropologi. Esiste però una Soprintendenza, che opera sul territorio, e che ignora completamente la materia, le metodologie, e nel nostro campo non fa nulla o fa cose inutili e insensate. Non ci sono posti nei musei, nelle università, se non uno di ricercatore a L’Aquila e qualche contratto sparso; non esistono nella Regione, non nelle Province e soprattutto non esistono nei Parchi, che dicono di valorizzare il nostro territorio. Basta leggere un qualsiasi Piano del Parco per capire quanto poco peso abbia la cultura dell’uomo al suo interno, e quanto sia invece sempre più proposta l’immagine e la messa in pratica di una natura falsamente ideale, selvaggia, non addomesticata e non addomesticabile come al contrario è stato per migliaia di anni, nel rispetto e nella convivenza. I risultati sono l’invivibilità e l’ingestibilità di questi territori, e uno spopolamento drammatico al quale la politica non sa trovare alcuna soluzione. Chi conosce l’Abruzzo interno sa bene queste cose, soprattutto lo sa chi ci vive. Siamo demoetnoantropologi e ci occupiamo della convivenza delle culture, della loro diversità inalienabile, e il nostro contributo è fondamentale ancora di più in una realtà sociale che sta cambiando e che, se da un lato lascia territori spopolati e abbandonati a sé stessi, dall’altro ne forma di nuovi e sovraffollati, congestionati, dove la convivenza diventa sempre più difficile senza la comprensione di queste diversità.

Non appartengo stabilmente a nessuna istituzione, per questo motivo parlo a titolo personale. E personalmente sono indignato e chiedo che siano riconosciuti i miei diritti al lavoro. Ho una formazione professionale e umana da antropologo, con laurea, dottorato e post-dottorato in corso: un percorso di tipo specialistico nel settore demoetnoantropologico. So quale può essere il mio contributo e credo sia nei miei diritti esigere che sia messo nelle condizioni minime per darlo, altrimenti è inutile proporre dei percorsi di formazione professionale come quelli che io ho perseguito. Quando vado negli Enti voglio parlare con interlocutori adeguati, preparati e consapevoli, che conoscano la materia, i problemi che tratta, le questioni di cui si occupa; voglio che ci siano leggi in grado di sostenere progetti e iniziative nel mio ambito di ricerca. Conosco le situazioni reali, e le necessità reali, ma senza strumenti adatti non è possibile andare avanti. Non sono uno storico dell’arte, sono un demoetnoantropologo, e non ho intenzione di andare a studiare gli affreschi della chiesa di Santa Reparata, né di fare il censimento dei campanili delle cattedrali. Tanto meno ho desiderio di scrivere saggi sui portali dei palazzi del ‘500. Mi occupo di materia vivente, di uomini, donne, comunità, luoghi, processioni, rituali, religiosità, biografie, questioni sociali, patrimonio, canti, saperi, memoria. Forse dovrei piuttosto emigrare nei luoghi dove alla mia professione sono dati dignità e corrispettivi stipendi, e non questo continuo insulto e una manifesta volontà di negazione ingiustificabile, contrari alla nostra storia e alla nostra cultura.

 

Grazie dell’attenzione

 

Gianfranco Spitilli, demoetnoantropologo 

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